Leonardo

Fascicolo 1


Nuova critica shakspeariana
di Giuseppe Antonio Borgese
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Nescio quid maius


Terenzio introduceva il prologo a spiegare la genesi delle sue commedie e a ribattere le accuse dei suoi avversari, i comici latini e italiani chiesero con ossequente umiltà l’applauso e la benevolenza del pubblico per bocca dell’ultimo personaggio; anche lo pseudo - Shakespeare fè parlare in favor suo la Fama nel prologo di Pericle principe di Tiro. Ora Alfredo Oriani ha voluto anche in questo essere più moderno, e nella novissima tragedia L'invincibile ha inserito, con bell’atto di audacia, l’autocritica e l’apologìa della sua opera stessa.
  Certamente ciò non è modesto. Non è nemmeno modesto mettersi a ripensar l’Amleto e ripresentarlo al pubblico, diminuito dello spadino e del mantello ed aumentato dei pantaloni lunghi. Ma nè io nè altri pensa oggi a rimetter fuori dalla vecchia piramide della critica bigotta la mummia della modestia. E poi, non forse tutti i tragedi del secolo XVIII ripigliarono i temi della tragedia greca?
  Ma opportunamente dice l’Oriani nel suo Invincibile che solo il delinquente può punire se stesso. Difatti egli ha sentito il rimorso prima ancora che i critici ardessero della sete di vendetta. Ed ecco che il suo vecchio giudice Venturi, un pronipote non interamente stucchevole dell’antico Pantalone, il savio alla buona, ci fa sapere l'opinione del signor Oriani intorno ai due Amleti.
  L'uomo — dice egli — non ha facoltà di punire. Il giudice dovrebbe essere superiore all’uomo. Amleto punisce; ma pensate un po’ — egli si rivolge all’Amleto moderno che meditava propositi di vendetta — se l’esito del duello non fosse stato mortale anche per lui. Egli si sarebbe trovato solo, davanti alla sua coscienza, dopo la morte di Polonio, la pazzia di Ofelia, la morte di Laerte, l’avvelenamento della madre: terribili ingiustizie, di cui egli solo era colpévole. Allora sarebbe cominciato il vero dramma
  Mi duole di dover citare a memoria poiché il dramma non ha ancora visto la luce per le stampe. Forse sarò stato ingiusto verso l’Oriani, in questa citazione; ma credo d’aver colto il suo pensiero, e in ogni modo le mie conclusioni non saranno meno vere. Per Alfredo Oriani dunque il vero Amleto dovrebbe cominciare dove quello di Shakespeare finisce: dall'apparizione dello spettro fino alla strage del quinto atto non corre che l’antefatto. Ora io non dirò quale sterminato campo abbia aperto alle future critiche shakesperiane il buon giudice Venturi con queste innocenti parole: è certo, per esempio, che da ora in poi si considererà l’Otello come un qualunque abbozzo del vero dramma. Otello ammazza Desdemona col cuscino. Troppo facile soluzione! Ma se Emilia fosse arrivata in tempo a salvarla, come si sarebbe comportata Desdemona con Cassio? E con Otello? Gli avrebbe perdonato? O, offesa nella delicatezza della sua anima femminile, sarebbe tornata a Venezia? E, per esaminare un altro caso, se Otello non fosse riuscito ad uccidersi, cosa avrebbe detto ai giudici veneziani? Quali atroci rimorsi avrebbero lacerato il suo animo? Sublime casistica critico - estetica, che rinnoverebbe ab imis fundamentis l'arte drammatica e di cui


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la posterità dovrà render grazie al buon giudice Venturi, il quale aveva tanto spirito da non credere alla giustizia, ma credeva alla critica, e ne faceva, anche.
  Pechè poi le dottrine estetiche di questo innocuo dottore in legge mi stiano tanto a cuore non si capirebbe, se il vero dramma fosse una trovata sua, tutta sua. Invece nessun microbo della critica drammatica è sprovvisto di questo ingegnoso strumento: manca il vero dramma, il sipario cala quando dovrebbe cominciare il vero dramma, e così via. Se poi vogliono penetrare più addentro nell’opera di arte, spolverano le cinque o sei formulette d’uso — la piccola cabala del mestiere — che sono: lo svolgimento, la sceneggiatura il dialogo, la tecnica, il conflitto delle passioni — tutta una terminologia barbarica, come quella di cui fanno uso gli chauffeurs e i riparatori di biciclette. Il conflitto poi, o contrasto che dir si voglia, è la rocca priamea di questi critici; «il pensiero è dei filosofi, la poesia poi... è roba da poeti» — sembrano essi dire, e il nome di Vittoriano Sardou li ispira — «il drammaturgo non deve curar che l’azione; lo svolgimento delle passioni sia rapido e verisimile, poi vengano esse a conflitto in acconce situazioni e nello scioglimento l’artista non dimentichi le regole del senso comune, che sono le vere muse del dramma moderno.» Del resto i critici son tutti d’accordo nel ridere di tutto cuore quando pensano alle regole di Orazio o del Gravina: quelle si erano pastoie accademiche. E con quanto acume vagliano, ad ogni nuovo dramma, la destrezza e la presenza di spirito dell’autore! Cosi si giuoca! Sullo scacchiere — o sul palcoscenico, tanto è lo stesso — sono il marito la moglie e l’amante o un’altra combinazione a scelta in quella, tal posizione; cosa faranno ora quei personaggi, come si muoveranno le pedine? il più bravo scacchista sarà il più gran drammaturgo. E a bella situazione, il bel problema sarà il vero dramma. «E non venite a parlarci di Eschilo e di altre anticaglie, noi non ce ne occupiamo, come l’Aretino, al dire di Paolo Gicvio, non si occupava di Cristo :
«scusandosi col dir; non lo conosco.»

La situazione col dirione è la chiave di volta del dramma. La tesi morale o sociale — contro cui s’è tanto sbraitato — era lo scopo, il punto di arrivo; a situazione è il punto di partenza; differenza di poco. E la situazione non sorge che dal contrasto. Ora io mi guarderò bene dal negare il contrasto in arte; sarebbe come negarle la vita; ma un metodo d’arte che ha bisogno assoluto del contrasto confessa implicitamente la sua impotenza: nulla è grande se non può esser senza confronto. Come mai questi critici e questi autori che dispregiano il romanticismo inetto non vedono che forse la sua principale debolezza era l’abitudine d’un ridicolo contrasto tra il paesaggio e l’animo? «Il cielo è limpido: il mio cuore è triste» ecco lo scheletro di centinaia e centinaia di romanze che fecero inumidire molti fazzoletti alle nostre nonne. Prometeo è grande anche senza troppi contrasti. Il Segantini mostrò che si può dipingere la luce anche senza l’aiuto dell’ombra. Tuttavia Domenico Tumiati dice che se un periodo è tutto bello la bellezza d’una frase elide quella della seguente e che una bella donna sembra più bella in una strada fangosa che in un prato di fiori. Vero: anche una collana brilla di più sul seno incartapecorito di una vecchia strega e un mazzo di fiori sembra più odoroso se ad ogni cardenia sta accanto un’assa foetida.
  Io non so se l’Oriani concepisca il vero dramma proprio come gli autori e i critici suoi contemporanei; non voglio nemmeno giudicare se nel suo Invincibile egli sia partito da un problema scacchistico: «come si comporterebbe Amleto, se vivesse ai nostri giorni, con le nostre idee?» Ma è certo che egli applica, forse primo, la critica drammatica moderna a Shakespeare, che finora era tabu per questi cannibali del teatro, probabilmente in grazia della loro sublime ignoranza. Certo è che l’Oriani, o meglio il suo amenissimo magistrato, si crede in diritto di confrontare i suoi problemi etico-sociali coi drammi di Guglielmo Shakespeare.
  E magari finisse li! Ma la sua critica è assai più complicata. «Voi» dice sempre l’ineffabile giudice all’ Amleto moderno che medita sanguinose vendette «voi pensate sempre ad Eschilo e a Sofocle; e vi pare che non c’è tragedia se non ci sono coltellate e assassinii. Sta bene: la tragedia moderna è l’Invincibile» l’Oriani fa bene a crederlo, altrimenti farebbe male a farla recitare. Ma perchè ricorrer sempre ai contrasti? è necessario per far notare le bellezze dell’Invincibile, paragonarla al Prometeo e all'Edipo a Colono dove, a farlo apposta, non ci sono nè assassinii nè coltellate? L'Oriani, che ha dedicato molta parte di sè agli studii, sa bene che gli assassinii e le coltellate non sono di prammatica nella tragedia antica, e sa anche che, quando pure ci sono, la tragedia non consiste in essi.
  «Il delinquente solo può punire sè stesso» ecco un altra massima del profondo magistrato. Però questa non è una trovata della tragedia moderna; giacché lo sapeva anche Eschilo quando scriveva l’Orestiade e Shakespeare quando scriveva il Macbeth, in cui l’usurpatore è punito dalla sua coscienza assai prima che dai vendicatori di Duncan. Solamente gli antichi tragedi sapevano anche «che assai di rado il delinquente punisce se stesso» — non ci ha forse detto Sante De Sanctis che i criminali dormono più tranquillamente di Aristide e di Catone? — e perciò legittimavano l'istinto della vendetta.
  Cosi il giudice Venturi ha piantato le basi della nuova critica shakespeariana. Ci vorrà molto prima che si raccolgano ben bene tutte le incoerenze, tutte le inverisimiglianze, tutte le deficienze tecniche, tutto ciò insomma che non è il vero dramma, nella selva selvaggia dell’opera shakespeariana. Credo d’avere anch'io alcuni appunti sulle Fatiche d'amor perdute e i Due Gentiluomini di Verona, che misurai per benino con la squadra e il doppio palmo verso i miei quindici anni. Lo presterei volentieri al degnissimo giudice, perchè ci godo a veder messo al posto quel bricconcello che si divertiva ad ammazzare tutti i personaggi, tutti in una scena, quando gli seccava di fare il vero dramma.


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